
Lo specchietto per le allodole ammalia e avvicina, tesse una rete fitta che, con il suo fascino, intrappola, producendo un inganno dei sensi, dalla vista al sentire più profondo. E' una condizione nelle quale ci siamo trovati tutti, almeno una volta nella vita.
L'incontro con la chimera, una figura che in mitologia è composta dalle parti di animali diversi, è, nella realtà, quell'esperienza dai tratti vaghi e incantati, che nasconde quasi sempre un imbroglio.
Siamo capaci di sguazzarci dentro, come la rana bollita di Chomsky, per molto tempo, forse nel profondo sappiamo anche che ci stiamo facendo del male, però continuiamo, senza sosta, nella nostra azione autolesionisitica. Ci convinciamo del fatto che, grazie a quell'evento chimerico, qualcosa nella nostra vita potrebbe anche prendere una piega diversa e, mentre ci diciamo che il cambiamento potrebbe essere in meglio, qualcosa, sempre nel profondo, ci dice che non sarà così.
Niente da fare. Avanti così. Fino a quando, giocoforza, si devono fare i conti con la realtà. La chimera si palesa per quello che è: una mostruosità che, nel frattempo, ha abbruttito anche noi. Nelle nostre storie, la chimera può essere paragonata al canto delle sirene di Ulisse. Quanto ci piacerebbe seguire quella voce soave, e quante volte ci capita di farlo, a nostre spese.
Con il tempo, si è fatta strada in me una quasi certezza: cadere in questa rete, fondamentalmente, dipende da una struttura interiore fragile, spesso figlia legittima di qualche aspetto cruciale irrisolto, declinata in poca fiducia in se stessi e nelle proprie capacità, di valutazione oggettiva. Non è nemmeno così semplice definire l'oggettività e, per evitare di cadere in un incasinatissimo labirinto teoretico, preferisco usare un'immagine simbolica, che poi è quella che ho scelto per l'articolo di oggi, unita a questa domanda:
"se questa situazione, potenzialmente chimerica, fosse un ponte molto
lungo e tu ti trovassi ad una delle due estremità, riusciresti a vederne la fine?"
Se la risposta è affermativa, con ogni probabilità, ciò in cui stai per imbatterti è autentico, realistico, sostenibile e praticabile; questo significa che la tua Visione sulle cose nasce da una struttura di fondo consolidata e collaudata che ti permette di conoscere, in un certo senso, già il finale. E quindi, volendo, puoi scegliere di fermarti, o procedere, con coscienza dei rischi.
Al contrario, se non arrivi a vedere l'altra estremità, ti conviene fare uno stop per riflettere sulle possibili criticità. Come in autostrada, quando c'è nebbia, e il cartello indica di procedere a velocità ridotta. Non vuol dire, in senso assoluto, non intraprendere il percorso, ma solo avanzare a piccoli passi, in modo da poter essere sempre pronti a fare un bel dietrofront all'occorrenza, diminuendo il livello di rischio. Magari può bastare una piccola sosta per comprendere che tornare alla base è la scelta migliore, oppure, potrebbe servire a capire che, con altri ritmi, dopo opportuno training, ci si può avviare comunque.
Prendendo come spunto quello che scrive la Pinkola Estés, nel suo libro "Donne che corrono con i lupi":
"forse esiste qualcosa di meglio, qualcosa di non così difficile, qualcosa
che richiede meno tempo, meno energia, meno sforzo"
ci si può: o orientare ad una dimensione di semplicità, oppure assecondare l'atavico istinto di cercare, auspicandosi di trovare, soluzioni, con il rischio calcolato di trasformare ogni esperienza in un potenziale... disastro o occasione di crescita
Io, tra le due, sono per la variabile umana.
Non posso pensare di percorrere solo e sempre delle strade solo perchè da subito ben definite (magari da altri); è molto più stimolante e formativo, se possiedo gli strumenti idonei, segnarli io stessa, i miei percorsi, confrontandomi costantemente con i miei limiti, per conoscerli e superarli, quando richiesto.
In sostanza, il mio invito è: sali sul ponte. Sei sempre in tempo per tornare indietro.
Al massimo, ti concedi una sosta e ti godi il panorama.
Buona settimana,
Cristina