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  • Immagine del redattoreCristina Ferina

La Ferita narrata



Sul trauma esistono studi infiniti; in questi ultimi anni, soprattutto per lo stile di vita che conduciamo, si sono resi necessari approfondimenti sul tema, approcci integrati che vedono convivere le neuroscienze con la filosofia, l'arte con la psicologia, la narrazione con il lavoro somatico, che è il mio campo d'azione.


Come sempre faccio, porto la mia esperienza professionale che, per diventare tale, è stata prima di tutto personale.

Ricordo che uno dei miei Maestri, anni fa, mi disse: "Non puoi -accompagnare- nessuno in un posto che non conosci", per dire che prima di sostenere qualcuno in un processo di consapevolezza, attraverso quel processo, non lo stesso ovviamente, dovevo esserci già passata io, in qualche modo.

Il fattore comune è una sorta di "fenomenologia del senso dell'evento vissuto", che è il livello di esperienza che acquisiamo in seguito ad eventi particolari, come quelli traumatici.


Intanto, trauma, etimologicamente, significa ferita; la ferita è come uno strappo, una separazione di qualcosa che in origine era unito. Una ferità è un'apertura nella quale può entrare ancora dolore, se non si interviene per sanarla.

Vissuto dalla e sulla persona, il trauma è un evento che disorienta, dissocia, porta scompiglio nell'equilibrio (quell'equilibrio che noi, non senza impegno, cerchiamo di mantenere).


Un trauma è qualunque evento, fisico e/o emotivo, non necessariamente tragico, che spezza questo equilibrio: un cambio repentino di programma, una perdita improvvisa, una notizia inattesa, un dito che si rompe... il trauma è sempre un'esperienza che sfida le nostre risorse. Un concorrente sleale, che fa di tutto per complicarci le cose. Quando parlo di risorse, intendo gli elementi che nutrono la nostra capacità di resilienza (di cui ho scritto in questo post), che sono fondamentalmente di due nature: interiori (attitudini caratteriali) oppure esteriori (praticare sport, fare teatro...). Sono come degli amici fidati sui quali possiamo contare nel momento del bisogno e che ci aiutano nella fase di risalita.


E poi c'è la sua declinazione, più sottile, che agisce come la goccia che scava la roccia, ed è la traumatizzazione. Un processo di per sè non così rilevante, ma che lo diventa con il tempo e... la ripetizione.

Esempio: faccio da 20 anni lo stesso lavoro, che detesto! Ogni mattina, quando mi alzo per andare in ufficio, provo una stretta allo stomaco.


Alla lunga, la goccia ha scavato talmente tanto, che ci è venuta l'ulcera!


Il trauma è come un libro appoggiato su un tavolo in giardino, esposto ad un'unica folata di vento improvviso, che resta aperto su due pagine, fino a quando non interviene qualcuno a chiuderlo, ma solo dopo essersi assicurato di poterlo fare. (Prendo spunto dal fenomeno atmosferico che amo di più in assoluto e che oggi, mentre scrivo questo post, si impone con prepotenza).

Un trauma, per essere risolto ed integrato, ha bisogno di un tempo scandito dai ritmi del corpo, con una ciclicità tipica degli assestamenti tellurici, che spesso fanno emergere, proprio come succede nel fenomeno naturale, altri aspetti, rimossi per necessità auto-conservativa. Ogni sfumatura va osservata, compresa ed integrata; ogni elemento metabolizzato diventa fondamentale nel processo, in quanto rafforza la cucitura dello strappo e conduce verso una direzione risolutiva.


Esistono tante strade, e la narrazione è una di queste; io la integro con la Biodinamica Craniosacrale, ma è anche un approcciò a sè, il Bodytelling, e parte dall'attenzione alle sensazioni del corpo che emergono nel momento presente.


Raccontare una storia (anche su di sè) è sempre una forma di dis-identificazione.

E la dis-identificazione è già essere sull'altra sponda, in sicurezza, ad osservare l'evento.

Il racconto, narrato nel presente, è attivo in una dimensione parallela, che si osserva da lontano.


Gli elementi della narrazione prendono forma dalla sensazione-scrigno (scrigno perchè contiene informazioni preziose), man mano che si avanza nell'esplorazione.


Ogni sensazione-scrigno diventa un simbolo che agisce come elemento di unione. Man mano che si procede nel racconto, si inizia a sperimentare una sorta di simpatia (nel senso di una partecipazione soggettiva e forte) con gli elementi simbolici, che conducono agli archetipi specifici.

L'archetipo, in senso junghiano, è un modello predeterminato, di riferimento, che giace nell'inconscio collettivo. Ma l'archetipo è anche un'espressione dell' "assoluto" e dell'autentico, di una fonte originaria, che ha una forza commutativa e riparatoria.


In base alla mia esperienza, la narrazione corporea, porta i pezzettini che si sono sparpagliati in seguito ad un trauma, ad incontrarsi e ad unirsi di nuovo, in una forma nuova che sarà diversa dall'integrità originaria: una sorta di "cheloide" che, nel suo spessore, racchiude gli insegnamenti ricevuti da quella esperienza specifica.


In tutto questo processo, che nel post ho provato a sintetizzare al massimo, cercando di ricondurre agli elementi essenziali del lavoro, si parte dal corpo perchè il trauma è lì, nella sua neurofisiologia, e uno dei modi per conviverci è rielaborare la giusta distanza simbolica.


La narrazione corporea offre questa possibilità, perchè plana, delicatamente, attraverso il simbolo, sull'esperienza somatica, proprio come potrebbe fare una foglia, accompagnata da quell'unica folata di vento, sulle pagine del libro, diventando, allo stesso tempo, la prova concreta dell'esperienza traumatica trasformata, il senso e il segno dell'esperienza vissuta, e l'autorizzazione a chiudere (il libro).


Hai mai vissuto la sensazione di essere come quel libro?

Ti sei sentit* frammentat*, a pezzettini?

Hai già sperimentato qualche metodo simile a questo per integrare degli eventi significativi?


Se hai piacere, visto che siamo in tema di narrazione, puoi raccontarmelo qui sotto (senza, ovviamente, scendere troppo nei particolari)


A presto,


Cristina


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